Intervista ad Antonella Manni in occasione del finissage al MAD in Umbria del 27 gennaio 2024


Potresti parlare un po’ della tua formazione?

Allora, io ho studiato prima letteratura (Germanistik), ma anche economia - questi studi li ho anche finito all’università di Magonza. Poi invece ho studiato Arte visiva da un artista multidisciplinare (Hermann Nitsch) alla Accademia di Francoforte dove lui allora teneva una cattedra proprio per ‘Arte Interdisciplinare’. E questo è stato per me un incontro molto importante, mi pare che da allora risale il mio approccio di assumere/accogliere diversi stimoli esterni per il mio lavoro.

Mi ricordo ancora queste serate nello studio di Nitsch a Francoforte dove invece di fare discorsi teorici ci faceva sentire a volume alto le cantate di Bach…
Lui stesso nel lavoro suo integrava sia il teatro sia la pittura sia la musica (lui componeva anche musica per le sue performance) - lui puntava sempre sul coinvolgimento di tutti i sensi, cercava di creare una specie di Gesamtkunstwerk.
Anche se lui con noi studenti non è stato mai invasivo, ognuno poteva seguire le strade sue, si trasmetteva probabilmente qualcosa su di me in un modo osmotico: già allora, mentre stavo lavorando, senza pensarci troppo, ho scritto a volte delle parole o frasi dei testi o canzoni che stavo ascoltando, musica, audiolibri etc dentro la pittura ancora umida, mi piacevano i ‘segni’ che lasciavano le lettere, le parole scritte.

Poi ho scoperto che comunque mi dava anche una certa ‘libertà mentale’: concentrandomi con la mente cosciente su una cosa che ascoltavo, lasciava un’altra parte di me quasi - le scelte dei colori, della composizione etc venivano intuitivamente, come in una specie di ‘trance’, non era una scelta ‘cosciente’ – certo, dopo ci ri-guardavo, giudicavo con uno sguardo critico e cosciente.

Comunque non si capisce mai come alla fine un quadro prende la sua forma finale: rimane sempre una specie di ‘black box’. C’è questo quadro di un artista tedesco, sigmar polke, un quadro famoso: si tratta di una tela bianca con solo un angolo nero - con la scritta ‘esseri superiori mi hanno ordinato di dipingere l’angolo destra in alto in nero’!
 

Quali elementi sono caratteristici o svolgono un ruolo chiave nel tuo lavoro - visto che sei una pittrice astratta?

Prima di tutto forse mi inserirei in una categoria più specifica della pittura astratta : io mi definirei una pittrice astratta, questo si, però la mia pittura, la descriverei soprattutto ‘monocromatica’ – invece di essere gestuale.
E direi di si, ci sono elementi che si potrebbe individuare, in modi a volte più a volte meno importanti in tutti i miei lavori - direi che potremmo parlare
- della materia
- del ritmo
- del segno - che però intendo come una cosa più complesso
-sia come un segno calligrafico, una linea astratta
-sia come un segno semiotico
-sia a volte come una cosa decorativa che si sovrappone anche con l’ornamento
Naturalmente tutti questi elementi sono anche intrecciate tra loro.
 

Allora, potresti parlare un po’ di questi elementi un po’ di più in dettaglio?

LA MATERIA
in riguardo alla materia o alla materialità non c’è tanto da spiegare: quando ero più giovane ho sognato di diventare una specie di femmina Anselm Kiefer - allora usavo anche il cemento eccetera per creare delle superficie aptiche; poi invece ho trovato una specie di paste che è più elastica e che mi permette di con ella posso già pre-strutturare la superficie, darle già un ‘ritmo’ prima di usare il colore.

IL RITMO
Per me è sempre stato una cosa molto importante - il ritmo è vita: il battere del cuore e del polso è ritmico, il respiro, il sesso e ritmico, la musica e ritmica - e già nei lavori di trent’anni fa mi attiravano le superficie strutturati, a volte con le strisce, ma quasi da sempre appaiano questi diciamo ‘punti organizzati’ - che già nella prima stesura mi guidano in una certa direzione, danno già una specie di pre-forma al lavoro.

IL SEGNO
La parola ‘segno’ per me include diversi significati:
c’e’ la scrittura che nel mio lavoro la uso come la calligrafia, anche la linea è calligrafia, vuol dire che la iscrizione e le scritte sono per me una particolare declinazione del dipingere.
Ma come la scrittura si ‘appropria’ dei frammenti di testi, presi da testi molto diversi - così (a volte) si trasmette anche il significato semiotico quando i frammenti sono ancora leggibili (che non è sempre così, a volte spariscono anche sotto diversi strati di colore).
Questo significa che la scrittura nel mio lavoro (come l'ha definita una volta un curatore, che stimo tanto, Marcello Carriero) "perde la maternità del testo da cui è stata estrapolata per vivere come un oggetto indipendente" - ed è vero, lo sento così.
Le parole forse risvegliano nello spettatore delle idee: si crea una sorta di "atmosfera letteraria" - la citazione, la frase, il frammento di testo, può così attirare per un attimo l'attenzione via dal gesto pittorico, ma poi la riporta al contenuto del quadro. Il ‘grafitto’ poi appartiene comunque all’ontogenesi della disciplina pittorica già da secoli – potrebbe quindi essere decifrato anche come una ‘iscrizione’.

E poi il SEGNO include anche l’ornamento – o nella scrittura o nell’aggiungere dei segni meta-astratti o proprio ornamentali; io uso molte volte per esempio dei ‘stencil’ floreali che secondo me declinano il segno in un altro modo ancora e che a volte va in direzione decorativo.

Alla fine però si può anche concludere questo discorso con la ‘realizzazione’ che alla fine tutte le scelte di un artista non sono mica coscienti: e quindi tutti lavori nascondono tra le righe anche certi stati d’animo dell’artista che volendo o non volendo rivelano qualcosa a volte anche molto intima - e qui entriamo anche in un discorso sull’identità - forse persino sull’intimità - in cui l’artista tramite il suo lavoro entra anche in contatto con lo spettatore, diciamo in un ‘contatto estetico’ che comunque a volte può provare emozioni forti: come nell’opera o in una canzone pop la voce di un cantante, una certa musica, un qualsiasi opera d’arte può suscitare qualcosa di profondo dentro di noi che ci può persino far piangere, senza essere in grado di spiegare tutto in fondo.
L’ha formulato Kafka molto poeticamente nell’ultima frase del suo racconto ‘In galleria’: ‘… lo spettatore di galleria appoggia il viso al parapetto e, sprofondando nella marcia di chiusura come in un triste sogno, piange di un pianto inconsapevole.’)

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